9 Dicembre 2024

Folckore e Tradizioni

Antonio Sposato, nel primo libro su San Mango d’Aquino pubblicato nel 1977, ha scritto che trattare del folklore non significa fare una sterile rievocazione dei tempi passati; significa invece mettere in luce i caratteri essenziali della vita e dell’animo di una gente, per cogliere i momenti più significativi di un progressivo sviluppo, visto nel suo nascere e nel suo articolarsi. Gli scopi sono conservare nel tempo le tradizioni del popolo, approfondire la conoscenza della più umile realtà, realizzare una memoria presente del passato.

Oggi a San Mango non si respira certo l’aria di una volta. Non esiste più quella civiltà che aveva espresso usi, costumi, modi di vita, credenze religiose, valori, fantasie, atteggiamenti, simboli, strutture familiari, gerarchie sociali. Si respira un’aria che i contemporanei hanno chiamato moderna, ed anche la cultura del passato è stata riproposta in chiave moderna. Tutto un patrimonio di tradizioni e di religiosità è stato trasformato in sagre paesane ed il folklore è diventato un genere di divertimento e di consumo da offrire a turisti e visitatori distratti.
Perché dunque abbiamo voluto raccogliere in questo spazio le tradizioni del passato? Perché abbiamo cercato di comprendere i gesti, le parole, i movimenti di chi è vissuto in una società dimenticata, spesso abbandonata e, sotto molti aspetti, pure sfruttata? Per conservare nel tempo le memorie del passato. Per tramandare il ricordo della vita dei nostri antenati a coloro i quali sono nati quando la civiltà contadina più non esisteva. Chiedendo il rispetto a chi considera ancora il folklore un’occasione di svago e di divertimento e a chi non capisce che esso, invece, ha caratterizzato la vita dei nostri nonni e dei nostri genitori, segnando gioia e dolore, momenti tristi e momenti felici.

Fra le manifestazioni a carattere civile la più bella, la più suggestiva e, forse, la più antica è la Mietitura, canzone in vernacolo intonata dai mietitori fra i campi di grano maturo sotto il sole cocente dell’estate.
La rappresentazione popolare dei principali motivi del canto veniva eseguita molto tempo addietro per le strade del paese il martedì di Carnevale di ogni anno, e gli attori erano gli stessi contadini, vestiti nei costumi tradizionali. I versi della canzone sono stati raccolti nel 1977, in occasione della pubblicazione del citato libro su San Mango, grazie alla collaborazione di Rosario Chieffallo, Giovanni Cicco, Amedeo Maida, Vincenzo Orlando, Luigi Sposato e Francesco Trunzo, e la rappresentazione è stata riproposta nel 1989 dal Centro del Folclore guidato da Mario Sacco. Poi sulla Mietitura è calato il silenzio. Antonio Sposato ha scritto che l’origine del testo non risale ad un solo attore, ma è legato all’ambiente agrestre; e tutto il canto racchiude i molteplici aspetti di un’esperienza di vita che ai nostri occhi può anche apparire pittoresca, ma che allora si presentava nella sua cruda durezza. L’esecuzione del canto avveniva a tre voci, ed alla fine di ogni verso le riprese si riunivano in un unico suono; insieme, poi, i cantanti ripetevano l’intero verso, che prima avevano spezzettato con cambiamenti di tono e con l’intercalare di “core mio”.
Nei canti popolari l’invito emergente è quello della rivolta nei confronti delle ingiustizie. A San Mango la più alta espressione di canto popolare è proprio la Mietitura, perché in essa sono presenti tutti gli elementi della civiltà contadina: mietitori, caporali, padroni, donne di famiglia. In essa aleggia lo sfruttamento delle classi povere, e le parole esprimono la contrapposizione fra signori e contadini, con la consapevolezza delle ingiustizie subite e con il desiderio di cambiamento. Un desiderio appena accennato, perché le note dominanti restano ancora rassegnazione e fatalismo, stati d’animo che finiscono per sfociare nella tristezza e nella malinconia.

Dopo la Mietitura, altra interessante tradizione è stata la Strina. Un tempo essa era divisa in Strina dei piccoli e Strina dei grandi.
Quella dei piccoli veniva praticata dai ragazzi, che si riunivano in gruppi la mattina del 31 dicembre e facevano il giro di parenti ed amici allo scopo di ottenere qualche regalo. In tempi di povertà i cesti venivano riempiti con fichi secchi, arance, pani e dolci fatti in casa; poi con il consumismo, a partire dagli anni Sessanta, i regali sono diventati più sofisticati.
Più complessa appariva, invece, la Strina dei grandi, perché il rituale costituiva una forma originale di dare gli auguri per il nuovo anno.
La sera dell’ultimo giorno di dicembre, dopo il cenone, si riuniva il gruppo e, accompagnati da chitarre, mandolini, fisarmoniche, organetti e tamburelli, iniziava il giro degli amici. Il canto veniva eseguito sull’uscio dell’abitazione, e le strofe in dialetto auguravano ogni bene al padrone di casa e a tutti i componenti della famiglia, i cui nomi venivano opportunamente inseriti tra un rigo e l’altro. Intonata l’ultima strofa, l’uscio veniva aperto e la comitiva entrava all’interno dell’abitazione, dove si scambiavano gli auguri e si brindava al nuovo anno.
Poi il gruppo si ricomponeva, gli strumenti musicali riprendevano la melodia e gli uomini intonavano le strofe di saluto. Lentamente si usciva di casa, ed una volta sulla strada si riprendeva il cammino dirigendosi verso l’abitazione di qualche altro amico a cui rendere omaggio.
In San Mango è stata presente anche una tradizione musicale rappresentata dalle serenate in dialetto, aventi spesso per oggetto la ragazza amata. Sono le canzoni dette all’arietta, intonate al suono di chitarre e mandolini e, in passato, accompagnate dalla zampogna. Erano canzoni che lodavano la bellezza della donna, che parlavano di un amore non corrisposto o di un amore pieno di passione, canzoni che parlavano di sfortuna e di disperazione, di ricordi e di sogni lontani.

Altra manifestazione della cultura popolare è stato il Carnevale, con il suo significato magico, con le cerimonie che richiamano i riti agrari che risalgono alla preistoria dell’uomo. Esso segna la fine dell’inverno, annuncia l’arrivo della primavera e celebra la morte del male ed il trionfo del bene. E’ la festa della fertilità della terra, ed i suoi balli ricordano i riti propiziatori delle antiche tribù che abitavano la Calabria prima della venuta dei Greci e dei Romani. E la fine del Carnevale, impersonato da un fantoccio che viene distrutto dal fuoco, fa tornare alla memoria il ricordo dei lontani sacrifici umani.
Sopravvive oggi la tradizione del ballo e dello scoppio del Ciuccio e della Signorina, pupazzi di cartapesta che, mossi da due portatori nascosti all’interno delle sagome, intrecciano passi di danza al suono della Raspa. Man mano che i pupazzi si muovono, i botti che rivestono la carcassa esplodono in una girandola di colori ed alla fine il ballo termina con un lungo fischio e con lo scoppio delle due teste.
L’usanza è tipica di molti paesi della Calabria, ma è presente anche in Sicilia, nella Spagna meridionale e nel Belgio, dove i giganti raffigurano spesso re, regine, guerrieri saraceni ed animali. Chiara reminiscenza pagana di purificazione e di messa in fuga di spiriti cattivi che potrebbero danneggiare i raccolti nei campi o la salute dei contadini, spiega lo studioso catanzarese Cesare Mulè. Oppure rappresentazione simbolica per salutare la fine dell’anno, come si usa in provincia di Como quando vengono bruciati in grandi falò i Pupazzi di Premana, oppure per chiudere un ciclo, come si usa in San Mango, quando lo scoppio delle teste del Ciuccio e della Signorina segnano la fine dei festeggiamenti in occasione della Madonna di Luglio.

Queste tradizioni hanno fatto parte per secoli della cultura dei nostri antenati, ed oggi che la civiltà contadina appartiene al passato, tutto il patrimonio del folklore è diventato un ricordo. Ci sono persone che vogliono far rivivere alcune usanze, e le iniziative in tal senso devono essere apprezzate ed incoraggiate. Ma bisogna stare attenti a non commettere errori: non si deve disperdere l’aspetto originario delle feste popolari, e non si deve assoggettare alle regole dell’attrazione turistica ciò che rappresenta il patrimonio culturale di un popolo. Solo così la rievocazione del folclore e delle tradizioni popolari potrà avere un senso.

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