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LA CALABRIA, I CALABRESI ED IL PARTITO DEMOCRATICO

09 Novembre 2007

La fase costituente del Partito Democratico è avviata, e le idee sono più chiare. I giorni che hanno preceduto l’assemblea calabrese di sabato 10 novembre, però, sono serviti a mettere in luce le contraddizioni che questo nuovo soggetto politico sta vivendo a livello regionale.


Giuseppe Pizza, segretario della rinata DC, ha fatto sapere che la “fusione tra culture e sensibilità politiche diverse” è fallimentare in quanto “la visione social-comunista e quella democratica cristiana possono allearsi, ma non possono fondersi”. Berlusconi, il giorno dell’Assemblea nazionale di Milano, ha parlato di matrimonio di interesse tra ex democristiani di sinistra e post comunisti. Per altri commentatori, la nascita del Pd sancisce l’unione fra le esperienze politiche marxista e cattolica: “uno storico abbraccio” tra Comunisti e Democristiani, è stato detto, e qualcuno ha evocato il nome di Aldo Moro.
A mio parere, questa chiave di lettura non è appropriata. Perché non tiene conto dei tempi che cambiano e delle ideologie che si evolvono oppure svaniscono. E’ come cercare di vedere la realtà con la testa rivolta all’indietro. Lo stesso Gianfranco Fini ha ammesso di non essere d’accordo “con chi liquida il Pd come un semplice matrimonio d’interesse e nulla più”.
Si, è vero: verso la fine del Novecento, quando le ideologie condizionavano pesantemente l’agire politico, c’è stato un rapporto di collaborazione fra i due grandi partiti italiani, La Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista Italiano. Ma l’obiettivo di quell’esperimento, passato alla storia come “solidarietà nazionale”, non era la fusione di due Partiti in un’unica organizzazione politica. Era ben altro!
Il Paese viveva una crisi profonda, con il terrorismo che mieteva vittime, l’economia in regresso e l’inflazione che galoppava a due cifre. Aldo Moro parlò ai deputati e senatori Dc, il 28 febbraio 1978, e chiamando i comunisti all’assunzione di maggiori responsabilità auspicò una "intesa sul programma, che risponda all'emergenza reale che è nella nostra società".
"Perché - spiegò allora Moro - abbiamo una emergenza economica ed una emergenza politica”.
Disse: “Immaginate cosa avverrebbe in Italia in questo momento storico se fosse condotta fino in fondo la logica dell'opposizione, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova da una opposizione condotta fino in fondo?”. E poi ancora: “Soltanto dopo che avremo governato insieme e ciascuno avrà dato al Paese le prove della propria responsabilità e della propria capacità, si potrà aprire la terza fase, quella delle alternanze al governo... La società consociativa non è un modello accettabile per un Paese come il nostro... Dopo la fase dell'emergenza si aprirà finalmente quella dell'alternanza, e la DC sarà liberata dalla necessità di governare a tutti i costi".
Così parlò Moro nel 1978, ma la morte dello statista ha interrotto quel percorso e l’Italia non ha conosciuto né la seconda fase (partecipazione diretta dei comunisti al governo) né la terza fase (la nascita di una democrazia dell’alternanza, con i due partiti che si riconoscevano reciprocamente e che si alternavano alla guida del governo).
Quello che succede oggi è cosa diversa dal fenomeno della solidarietà nazionale, e lo stesso Moro - testimonia oggi Corrado Guerzoni, che dello statista scomparso è stato il portavoce - ha sempre rifiutato il “compromesso storico”.
Non si tratta, dunque, di storici abbracci. Il Pd è un fenomeno nuovo, che supera la concezione del partito ideologico. Assistiamo ad una sintesi di tradizioni culturali che hanno radici diverse. Ma è una sintesi che cerca di guardare al futuro. Questo lo dobbiamo riconoscere. Lo stesso Fini ha ammonito: “Attenzione a liquidare il Pd come una fusione a freddo: è un soggetto politico che comincia ad avere un progetto per il futuro del Paese”.
Pietro Scoppola, prima di morire, a poche ore dall’inizio dell’Assemblea di Milano, ha rivolto un appello: “Cercate di essere un insieme”. E nel suo primo incontro con i giornalisti, il segretario calabrese Marco Minniti ha detto: “Penso ad un partito in cui non ci siano ex ma in cui siamo tutti democratici. Il Pd nasce per cancellare questa definizione di ex qualcosa che è quasi offensiva”.
Per come vanno le cose in Italia, la nascita di questo nuovo partito – o meglio, di questo partito nuovo – è una scommessa. E come tutte le scommesse, può essere vinta come può essere persa. Ma la nascita del Pd è pure una novità. E se è vero che le primarie sono state “l’atto politico più significativo degli ultimi decenni” (come afferma Minniti), allora io dico che le novità vanno capite e seguite fino in fondo, e non liquidate con giudizi approssimativi e grossolani.
Questa propensione a voler capire i fenomeni fino in fondo ci fa vedere le contraddizioni ed i punti di debolezza, specialmente a livello regionale, dove il partito rischia di diventare una cosa diversa da ciò che si profila a livello nazionale. Noi calabresi siamo bravi a cambiare le carte in tavola e a far diventare vecchio ciò che invece si presenta come nuovo. E’ questo il rischio che il Pd corre in Calabria.
Veltroni dice: “Nel Pd non ci sono correnti, e la partecipazione viene prima dell’appartenenza”. In Calabria gli fa eco Pierino Amato del Pdm, il quale, però, aggiunge: “Alla fine non mi scandalizzerei se dovessero crearsi le correnti come c’erano anche nei partiti tradizionali. Ognuno di noi è legato ad un gruppo piuttosto che ad un altro ma mi auguro che su grandi temi ci siano convergenze da parte di tutti”; e poi il finale: “Le correnti non le giudico in senso negativo”. Pasquale Motta dei Ds, rammaricato perché ha visto “Guccione fuori da qualsiasi commissione”, butta giù il carico: “…E’ da ritenersi, dunque, estremamente necessario costituire ‘Testa Alta per la Calabria’ in maniera organizzata in tutta la regione”. E due giorni prima dell’assemblea regionale, un quotidiano titola a tutta pagina: Pd, si agitano le correnti. Minniti dice: “Tiriamo una linea. Da un lato stiamo con le nostre bandiere, la nostra appartenenza; dall’altro non siamo più ex di qualcosa, ma siamo tutti democratici”.
A San Mango d’Aquino il direttivo della sezione I SOCIALISTI si riunisce ed approva un documento con il quale, “considerata l’evoluzione della politica nazionale e regionale…., ritenuto quindi che per salvare la cultura e l’identità dei socialisti, comunque sparsi nelle varie formazioni, bisogna tentare l’unica operazione possibile di Unità dei Socialisti all’interno del Partito Democratico…. Tutto ciò premesso, il direttivo delibera di aderire al progetto politico, unico possibile in questo momento, dell’Unità Socialista nel Partito Democratico”. Avete capito bene! C’è scritto proprio così: in questo momento; e c’è scritto: Unità Socialista nel Partito Democratico.
Bersani parla di un partito “aperto e ricco di forme inedite di partecipazione, federale a base regionale, che trovi in ogni dimensione locale i suoi fondamentali luoghi di vita e di selezione delle leadership” e Gentili aggiunge: “Abbiamo la responsabilità di rispondere con l'innovazione della forma partito che deve essere sempre più aperta, radicata nella società civile e reale strumento di partecipazione”.
In Calabria Antonio Gigliotti, consigliere comunale e presidente della Commissione consiliare Lavori Pubblici del capoluogo, dice: “La sede regionale del Partito Democratico sia a Catanzaro e a Catanzaro si svolgano le riunioni del gruppo dirigente”. E perché no! Siccome la città è accogliente, moderna, ricca di parcheggi e di servizi per gli ospiti, perché non farne pure la sede regionale del Pd? Se fosse vivo, Totò direbbe: “Ma mi faccia il piacere…”.
E qui mi fermo. Capisco che il Pd è un partito a vocazione maggioritaria, e per questo occorre allargare la base del consenso. Ma non a tutti i costi. Già il partito nasce con la strada in salita e con qualche contraddizione.
Da un lato c’è Luciana Sbarbati, la quale, all’assemblea di Milano del 27 ottobre, ha lamentato l’esclusione dei Repubblicani Europei dalla fase costituente per volere di qualcuno, ed ha chiesto un ritorno all’Ulivo di origine, per concretizzare la formazione di un partito plurale dove le diverse culture si incontrino senza pregiudizi e senza steccati.
Dall’altro lato ci sono i caporioni alla testa delle truppe cammellate che marciano verso la conquista dei posti di dirigenza; marciano compatte, le truppe, in diverse località della Calabria, così come abbiamo visto in occasione delle primarie del 14 ottobre.
Se non si esce da queste ambiguità, per il Pd non ci sarà futuro. Il consenso è necessario per essere maggioritari, però il consenso deve essere di qualità: un consenso su idee, progetti, riforme, cambiamenti, e non un consenso basato sull’arrivo di elettori che in ogni stagione sono stati fedeli al leader di turno, il quale a sua volta si è collegato al politico più potente, ed insieme hanno alimentato un sistema di potere basato su favori e clientelismo.
Maria Falcone, dai microfoni dell’Assemblea Costituente, ha chiesto “una politica che metta al primo posto il rispetto delle regole”. I calabresi Simona Dalla Chiesa, Doris Lo Moro, Demetrio Naccari, Rosa Falcomatà e Lidio Vallone, membri della Commissione nazionale chiamata a stilare il Codice Etico del partito, avranno un bel da fare, non a Milano, dove è stata istituita la Commissione, ma in Calabria, dove poi le regole dovranno essere rispettate e fatte rispettare.

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