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Russia, Cecenia e... Anna Politkovskaya
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Russia, Cecenia e... Anna Politkovskaya

22 Novembre 2006

Raccolgo notizie sulla Cecenia da molto tempo. Sarà lo strano suono del nome, sarà il mistero che circonda questa regione, sarà la curiosità, oppure un innato desiderio di conoscenza… Fatto sta che sulla Cecenia possiedo una buona documentazione. Ho evitato di scrivere sull’argomento perché pensavo, ingenuamente, che questa terra fosse lontana, e quindi non in grado di suscitare interesse fra i lettori.

Mi sono sbagliato.

 

La Cecenia è vicina. Perché ci ricorda che esistono giornalisti che muoiono dopo aver invocato una vita normale per questa remota repubblica caucasica. La Cecenia è vicina perché fa capire a noi occidentali che c’è una terza via, tra la feroce azione repressiva condotta sul suo territorio dal governo di Mosca ed il terrorismo di matrice islamica che vi si alimenta, e questa via è proprio quella che ha cercato di indicare Anna Politkovskaya, la via del rispetto dei diritti umani, dell’informazione come strumento per la creazione di una coscienza collettiva, della libertà del popolo di scegliersi i governanti e quindi di determinare il proprio destino.

Ma Anna Politkovskaya è morta, crivellata di colpi dentro un ascensore a Mosca.
Madre di due figli, 48 anni, Anna scriveva per Novaya Gazeta, un quotidiano indipendente che ha come azionista di riferimento Mikhail Gorbaciov (l’artefice della perestrojka), il quale ha dichiarato che il delitto “ha colpito duramente la stampa indipendente e l’intero Paese”; e il vice direttore della testata ha aggiunto: “Non rimangono più giornalisti come lei in Russia”.

Prima le minacce, che la costringono a rifugiarsi a Vienna nel 2001, poi il tentativo di avvelenarla nel 2004, ed ora i quattro colpi di pistola, sparati a bruciapelo alle 16,30 di sabato 7 ottobre 2006. E una delle poche voci libere rimaste nel giornalismo russo tace per sempre. “Non aveva alcuna scorta, ha scritto il corrispondente da Mosca del Corriere della sera, perché in questo Paese con i gipponi inzeppati di agenti speciali armati fino ai denti girano solo gli uomini del potere e gli oligarchi che hanno quattrini da spendere”. Tra il 1993 ed il 2006 in Russia sono stati uccisi 44 reporter; 15 giornalisti durante il governo di Putin. E’ inutile dirlo: pochissimi sono i casi risolti dalle autorità.

Anna era sconosciuta alla maggioranza dei suoi connazionali; eppure scriveva sulla sporca guerra condotta in Cecenia e parlava non solo della violazione dei diritti umani da parte delle truppe federali russe, ma anche delle atrocità commesse dai guerriglieri locali; indicava il presidente Putin come l’uomo che aveva messo la parola fine alle riforme democratiche; accusava il Cremlino di connivenza nel clientelismo generalizzato, nella corruzione dei burocrati, nella dipendenza della magistratura dal potere centrale. Stava lavorando ad un’inchiesta su casi di rapimenti e torture e aveva già raccolto numerose testimonianze e fotografie. Sulle politiche russe in Cecenia si chiedeva: “Stiamo lottando contro l’illegalità in modo legale? O stiamo infliggendo punizioni corporali in modo illegale?”.

Ma ora Anna è morta. Uccisa da un sicario. Così come è morto Aslan Maskhadov, punto di riferimento dell’ala moderata del separatismo, il leader indipendentista della Cecenia eletto presidente sotto il controllo internazionale nel 1997, l’uomo del dialogo con il quale Putin si è sempre rifiutato di trattare. E’ morto assassinato dalle truppe speciali russe nel mese di marzo del 2005, quando già la resistenza militare degli indipendentisti ceceni si è trasformata in un terrorismo internazionale ispirato da un Islam radicale che non ha esitato a provocare nel 2002 la strage del teatro di Mosca e nel 2004 l’orrore della scuola di Beslan.

Aslan Maskhadov aveva proclamato un cessate il fuoco unilaterale e aveva dichiarato di voler rappresentare i valori dell’Occidente; aveva preparato un piano che prevedeva la smilitarizzazione di tutti i combattenti sotto il controllo internazionale, aveva rinunciato temporaneamente all’indipendenza della sua patria pur di far prevalere la pace, e aveva chiesto all’Onu di non chiudere gli occhi. “In una Cecenia libera nessuna donna sarà costretta a portare il velo” aveva scritto in una lettera, ma l’Occidente non lo ha aiutato: Onu, Unione Europea, Nato… silenzio e abbandono, lo stesso trattamento riservato qualche anno addietro al comandante Massud in Afghanistan.

Quando nel 1999 Mosca depone Maskhadov da presidente, Putin ordina repressioni indiscriminate e devastatrici e la Cecenia sprofonda nell’orrore: stupri, saccheggi, eccidi, lo sterminio di un quarto della popolazione, una capitale di 400 mila abitanti tenuta sotto assedio per quattro mesi dall’esercito russo e poi distrutta. Akhmad Kadyrov, nuovo capo dell’amministrazione gradito a Mosca, è accusato di corruzione, rapimenti, torture, traffici illeciti, ma Putin dice che Kadyrov è “una persona perbene, aperta, onesta”, ed il calvario della Cecenia continua, fino all’uccisione di Anna Politkovskaya.

“L’omicidio della giornalista pone nuovi dubbi sul ruolo dell’Occidente nei confronti di Mosca” ha scritto il Corriere della sera dopo l’assassinio della giornalista, ma già nel 2003 La Stampa metteva l’accento sulle zone d’ombra esistenti in Russia ed Il Foglio parlava di rapporti bilaterali italo-russi “che però rischiano di favorire qualche omissione, come la richiesta di un preciso ragguaglio sul processo di normalizzazione in Cecenia”.

L’attenzione della stampa italiana c’era, anche se il solito Berlusconi andava dicendo che la Russia “si è data un assetto democratico” e che il Paese aveva deciso di “essere parte dell’Occidente”. Non c’era, invece, l’attenzione dei governi, e nel 2005 Andrè Glucksmann può scrivere di leader occidentali che fanno a gara nel fare la corte al capo di Stato russo: “Tutti si contendevano il privilegio d’invitare il presidente russo nelle loro ville, si recavano a San Pietroburgo, a Mosca incensavano, senza alcuna ironia, il nuovo cantore della democrazia arroccato sulla sua montagna di cadaveri ceceni”. Tutto questo mentre la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo condanna la Russia per uccisione di civili, torture e abusi commessi durante le operazioni dell’esercito contro i separatisti in Cecenia.

“È giunta l'ora che l'Occidente si faccia sentire, allora?” si chiede ora Franco Venturini, il quale aggiunge: “Un momento. La Russia svolge un ruolo cruciale nei confronti dell'Iran, e siede in quel Consiglio di sicurezza dell'Onu che sembra ormai in marcia - così sperano gli Usa - verso le sanzioni anti Teheran. E la Russia è anche una superpotenza energetica, che fornisce all'Europa oltre un quarto dei suoi vitali approvvigionamenti. Cosa è consigliabile fare, allora, litigare con Putin o rendere più solidi gli accordi che con lui già esistono, parlargli di diritti umani o pregarlo di lasciar stare gli investimenti occidentali in Russia e di sottoscrivere nuove garanzie sull'aumento delle forniture di gas e petrolio?”. Piero Ostellino non ha dubbi e dice che “la reiterata uccisione di giornalisti assume la connotazione di una questione che riguarda la tutela dei diritti umani; questione che la comunità internazionale, a questo punto, non può continuare a fingere di ignorare in cambio delle forniture di petrolio e di gas russi”.

E che ci sia in corso un baratto politico ormai non ci sono dubbi. Irina Khakamada, esponente di punta dell’opposizione liberale in Russia, è esplicita: “Da un lato gli idrocarburi e dall’altra meno critiche sulle violazioni dei diritti umani”.

“L’ex uomo del KGB che oggi guida la Russia non sembra essere stato colpito dalla commozione che ha percorso tutto il mondo” scrive Fabrizio Dragosei da Mosca alla vigilia dei funerali di Anna. E non poteva essere diversamente, visto che “Putin - precisa Glucksmann - appartiene a una nomenklatura che, dopo settant’anni di comunismo e dieci di saccheggi postcomunisti, non crede più a nulla”. E intanto la mattanza continua: il 16 ottobre 2006 viene accoltellato nella sua abitazione Anatoly Voronin, esperto economico dell’Itar-Tass, mentre il 13 settembre scorso era stata la volta di Andrei Koslov, vice-presidente della Banca Centrale impegnato in un’operazione di pulizia nelle banche che riciclano denaro sporco.

E’ da secoli che la Russia cerca di sottomettere definitivamente il Caucaso del Nord. Dopo il crollo dell’Urss nel 1991 la repubblica di Cecenia dichiara unilateralmente l’indipendenza da Mosca; nel 1994 il presidente Eltsin invia l’esercito ma la prima guerra si conclude con la sconfitta di Mosca, il negoziato di pace e il ritiro delle truppe russe. Nel 1999 l’esercito entra nuovamente in Cecenia su ordine di Putin ed in pochi mesi rioccupa gran parte del territorio; la guerra è ancora in corso, ed il popolo ceceno è al centro, vittima della repressione russa da un lato e del fanatismo islamico dall’altro.

Intanto la terza via della Cecenia rimane un sogno, così com’è un sogno l’indipendenza di un popolo - meglio, di un residuo di popolo - che muore nell’indifferenza dei governi che si dichiarano democratici. Ho cercato nelle enciclopedie notizie sulla repubblica del Caucaso; un atlante De Agostini, sotto la voce Cecenia, recita: notevoli giacimenti di petrolio e gas naturale!

Allora è questa la ragione di tante atrocità e di altrettanto silenzio. Serve a poco l’incontro che ieri il segretario di Stato americano Rice ha avuto con il direttore del quotidiano Novaya Gazeta e con il figlio di Anna Politkovskaya. Serve a poco, se l’Occidente continua a tenere gli occhi chiusi.

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