Alcide de Gasperi e l'Italia nel 1946
A. OrlandoNel libro Storia di una passione politica Tina Anselmi scrive che il 10 agosto 1946 De Gasperi si presentò alla Conferenza della Pace di Parigi dicendo che non tutti gli italiani erano stati fascisti, ed egli poté fare questa affermazione perché c'era stata la Resistenza che legittimava la sua difesa del nostro Paese.
Ma come si svolse il dibattito che impose alla nazione le condizioni di pace?
Giulio Andreotti, rispondendo nel 1977 alle domande di Antonio Gambino, ha detto che l'atteggiamento di De Gasperi nei confronti degli alleati teneva conto di tre valutazioni: rompere l'isolamento in campo internazionale, stabilire buoni rapporti con le autorità occupanti allo scopo di ottenere al più presto possibile la restituzione dell'intero territorio italiano all'amministrazione del governo di Roma, ottenere un preciso contributo economico e industriale alla ricostruzione del paese.
De Gasperi andò, dunque, a Parigi con queste intenzioni, e quando la delegazione italiana entrò nella sala del Palazzo del Lussemburgo, le millecinquecento persone fecero un silenzio profondo: ventuno paesi vincitori erano lì, pronti a giudicare un'Italia sconfitta, trascinata in guerra dal Fascismo.
Alcide De Gasperi entrò per primo, silenzioso, curvo, con un volto che esprimeva tristezza e dolore ma pure dignità e coraggio. Dopo, entrarono gli altri delegati italiani, accolti da un'atmosfera di diffidenza e di incomprensione. Nessun saluto, ed il posto a sedere riservato dietro tutti gli altri, nell'ultima fila di scanni.
E la stessa atmosfera accompagnò De Gasperi quando il presidente del Consiglio della nuova Italia scese nell'emiciclo, salì sulla tribuna degli oratori e cominciò a parlare. Non un sorriso di incoraggiamento, non un applauso.
La Jugoslavia , sostenuta dall'Unione Sovietica, voleva la Venezia Giulia e Trieste, l'Austria rivendicava pretese sull'Alto Adige, il confine del Brennero era in pericolo, la Francia avanzava richieste sulla frontiera occidentale, e poi pesavano i problemi relativi alle colonie, alla flotta, al ritorno dei prigionieri, alle riparazioni ed alle clausole economiche richieste per la firma del trattato di pace.
Ha scritto Dino Zannoni che il discorso tenuto da De Gasperi nel pomeriggio di quel 10 agosto 1946 rimane uno dei pilastri fondamentali di tutta la sua opera politica. Un lungo silenzio accolse la fine, e il gelo che aveva accolto la delegazione italiana al suo ingresso nell'aula cominciò appena a sciogliersi. Pallido e stanco, lo statista scese dalla tribuna e cominciò a risalire l'emiciclo per prendere posto accanto agli altri italiani. Nessuno gli parlò. Fu a quel punto che il Segretario di Stato americano gli tese la mano.
“La cosa mi sembrava inutilmente crudele – dirà qualche tempo dopo lo stesso Byrnes – e quando passò accanto alla delegazione degli Stati Uniti gli tesi la mano e gliela strinsi. Poi gli mandai un messaggio invitandolo nel mio appartamento nel pomeriggio. Volevo far coraggio a quest'uomo che aveva sofferto personalmente nelle mani di Mussolini ed ora stava soffrendo nelle mani della Nazioni Alleate”.
Ogni anno vado a visitare la tomba di De Gasperi, nella Basilica di San Lorenzo a Roma. L'ultima volta è stato lo scorso mese di aprile. E ogni volta mi ritrovo solo, mentre il traffico attraversa la grande piazza e la gente acquista fiori prima di entrare nel Cimitero al Verano.
Ho sentito molti uomini politici proclamarsi eredi di De Gasperi, e molte formazioni politiche, di destra, di sinistra e di centro, aspirano all'eredità. Ma De Gasperi, ha ricordato Indro Montanelli, è morto nella sua casetta da impiegato al catasto della Valsugana; egli era un uomo di Stato, l'ultimo che l'Italia ha avuto dopo Giolitti.
La figlia Maria Romana, in un'intervista, ha dichiarato: “Mio padre è morto senza eredi”. Ed io, oggi, mentre si avvicina la ricorrenza dei sessant'anni da quell'evento, mi accorgo che forse sto parlando di un'altra Italia e di un'altra gente.
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