Tramonto rosso: La sinistra, il Pd e San Mango d’Aquino

Ho ripreso a leggere un libro del 2008 pubblicato a cura di Renato Mannheimer e Paolo Nataleall’indomani di una tornata elettorale che, dopo la caduta del secondo governo Prodi, ha riconsegnato l’Italia alle forze del centro-destra: 17 milioni di preferenze al gruppo di partiti guidati da Silvio Berlusconi e 14 milioni di consensi al centro-sinistra guidato da Walter Veltroni. Nell’ Introduzione, i due studiosi scrivono che il risultato elettorale «rappresenta probabilmente un ulteriore tassello di un percorso che vede il nostro Paese propendere progressivamente verso le proposte politiche veicolate dalla compagine di centro-destra, grazie anche alla presenza di una sinistra sempre più debole (o alla sua assenza), con crescenti difficoltà a formulare progetti e proposte credibili, spesso inadatta a intercettare i bisogni e le speranze del Paese».

E ancora: «L’Italia elettorale e i risultati delle politiche 2008 disegnano un mondo dove – attraverso il voto – si riflettono le caratteristiche salienti degli italiani, dei loro timori e dei loro desideri: paura dell’immigrato, bisogno di essere difesi, costanti richieste di sicurezza personale. Ma anche la difficoltà ad affrontare un futuro competitivo e la scarsità di progetti innovativi».

Dieci anni dopo, trovate voi forse qualche diversità nella situazione politica attuale, fatto salvo l’arrivo del Movimento 5 Stelle e quindi la sua partecipazione ad un governo di cambiamento che finora è palesemente guidato da Salvini e dalla sua Lega?

La crisi della sinistra ha origini lontane, ma nell’ultimo ventennio ha avuto una forte accelerazione e ci ha fatto assistere all’eliminazione repentina dei suoi leader, assecondando una tendenza, più o meno consapevole, a danneggiare se stessi come in un gioco di autodistruzione.

Qualche esempio? Alle elezioni politiche del 21 aprile 1996 Rifondazione comunista, grazie ad un patto di desistenza nei collegi stipulato con l’Ulivo, ottiene 10 senatori e 35 deputati. Ma saranno proprio quei seggi a condizionare l’azione dell’alleanza di centrosinistra, e nel corso dei due anni di governo Prodi, Rifondazione impedisce all’Ulivo di riformare pensioni, sanità, stato sociale ed economia.

Mentre in televisione D’Alema e Berlusconi parlano di grandi riforme, di governo di larghe intese, di possibili accordi per riscrivere la Costituzione, lo steso D’Alema, dopo aver spinto il Pds verso la proposta di elezione diretta del capo del governo e tentato con il Polo della Libertà un dialogo che non va avanti, definisce l’azione di governo del centro-sinistra una politica di pura gestione, senza disegno strategico, nonostante la presenza in consiglio dei ministri di otto uomini del Pds in posti chiave.

Com’è noto, Prodi sconfigge due volte Berlusconi alle urne: nel 1996 con l’Ulivo e nel 2006 con l’Unione. I partiti della coalizione, però, non sono in grado di assicurare al Governo la durata per l’intera legislatura, e così l’esecutivo D’Alema nel 1998, gli interessi personali (Dini e Mastella) e di partito (Bertinotti e compagni) nel 2008, sono eventi che interrompono l’esperimento di centro-sinistra.

E non va meglio a Walter Veltroni, primo segretario Pd. Il 33,2% ottenuto alle politiche del 2008 non basta, e nel discorso di commiato pronunciato a febbraio 2009 dice: «Il Pd è stato il sogno politico della mia vita, lascio in serenità senza sbattere la porta, adesso cercherò di dare una mano al partito». Il giornalista Matteo Tonelli annota: «In sala Soru si asciuga le lacrime, Fassino e la Finocchiaro sono terrei. Achille Serra gli chiede di ripensarci. Bersani, cappotto in mano, è immobile. Rutelli non c’è. D’Alema nemmeno. Dicono che non abbia neanche telefonato».

Ed eccoci tornati al 2008, l’anno in cui la Lega raddoppia i suoi voti grazie agli accresciuti consensi raccolti tra gli operai. Scrivono ancora i due studiosi: «La Lega ha lavorato sul sentimento dell’antipolitica in forme diverse rispetto al passato: un tempo era rivolta soprattutto contro Roma, oggi l’attacco si focalizza sulla casta dei politici e sui loro privilegi». Aggiungendo che essa è riuscita a ritagliarsi uno spazio più dinamico e aggressivo all’interno della destra «grazie anche a una maggiore attenzione al territorio, ai rapporti con la gente e al ruolo svolto dalla rete dei suoi sindaci eletti in questi anni». In breve: «Il Carroccio è stato percepito come il partito più sensibile alla crescente domanda di sicurezza che nasce dall’impatto della globalizzazione sulla vita sociale».

In quel contesto e con questi precedenti si consuma la crisi del Partito Democratico. Che non è mai partito, come abbiamo più volte scritto, e che oggi è giunto al capolinea di una corsa effimera e spesso inconcludente.

Allora, nel 2008, nella rubrica Pensieri&Parole di sanmango.org ho avuto modo di osservare che «i partiti dell’Unione meritano non cinque, ma dieci anni di opposizione, durante i quali hanno il tempo per cercare di riprendere il contatto con i cittadini e farsi interpreti di esigenze e bisogni collettivi: sicurezza, crescita economica, lavoro e lotta al precariato, riforma della burocrazia, miglioramento della giustizia, federalismo, equità fiscale, abolizione degli enti inutili, costi della politica».

La caduta di Berlusconi e l’avvento del governo Monti nel 2011 hanno però spianato la strada di nuovo al centro-sinistra (Letta nel 2013, Renzi nel 2014, Gentiloni nel 2016), ed eccoci giunti al governo Conte, con a fianco i due vicepresidenti nel ruolo di guardiani della rivoluzione.

Anche in Calabria il Pd è nato come aggregazione fra Democratici di Sinistra (non tutti) e centristi della Margherita. Con l’aggiunta di qualche movimento locale, come il Pdm di Loiero. Diventando quasi un’agenzia di collocamento e portando avanti discussioni di vertice, spartizione di posti a livello regionale e provinciale, liti e personalismi a livello cittadino. L’esatto contrario dell’idea vagheggiata da Andreatta e portata avanti da Prodi.

Eppure quell’idea di partito nuovo – e non di un nuovo partito – è per qualche anno alla base dell’azione politica di un gruppo di giovani di San Mango d’Aquino che già nel 2005 hanno l’intuizione di aprire una sede unica all’interno della quale collocare sezione, simboli e bandiere sia dei Democratici di Sinistra (segretario nazionale Piero Fassino) che della Margherita (presidente nazionale Francesco Rutelli). Così, in un piccolo paese della provincia di Catanzaro si verifica quell’incontro «tra le culture socialdemocratica, cristiano-sociale e socio-liberale» auspicato nel 2003 da Michele Salvati e preso a base del patto di Federazione dell’Ulivorimasto in vigore fino a quando nell’aprile del 2007 i congressi nazionali di DS e Margherita stabiliscono il percorso comune verso la fondazione del PD.

Il gruppo di San Mango, con il suo circolo, rimane compatto, opera sul campo e porta avanti i problemi spiccioli della collettività per poco più di un anno. Ospita rappresentanti politici del circondario, organizza incontri e dibattiti e avvia iniziative per la tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini. Poi il direttivo della sezione I Socialisti, operante anch’esso nel paese, si riunisce ed approva un documento nel quale leggiamo, tra l’altro: «Considerata l’evoluzione della politica nazionale e regionale […] ritenuto quindi che per salvare la cultura e l’identità dei socialisti, comunque sparsi nelle varie formazioni, bisogna tentare l’unica operazione possibile di Unità dei Socialisti all’interno del Partito Democratico […] Tutto ciò premesso, il direttivo delibera di aderire al progetto politico, unico possibile in questo momento, dell’Unità Socialista nel Partito Democratico».

San Mango è da decenni un feudo «socialista». Le truppe cammellate irrompono e con la complicità dei dirigenti provinciali s’impadroniscono della struttura locale della nascente formazione politica, e anche a San Mango d’Aquino il Partito Democratico non diventa mai “partito”. Così come in altri territori della Calabria e dell’Italia, dove si verificano episodi analoghi e dove capi corrente, notabili, burocrati e politici di professione occupano il Pd condizionando le sue scelte e determinandone l’azione.

Evito di fare considerazioni sul livello dei consensiche poi il Pd ha raccolto a San Mango: cifre veramente misere, laddove i «socialisti» ci avevano abituato a cifre notevolmente consistenti. Registro che a livello nazionale, nel 2018, a distanza di dieci anni dalla fondazione, il Pd ha toccato in termini elettorali il livello più basso. Il suo ultimo segretario – Matteo Renzi – non è riuscito a farsi portavoce di una generazione delusa da un’intera classe dirigente. È fallito il tentativo, sicuramente sincero, di portare freschezza in un ambiente considerato vecchio e inadeguato. Ma è fallito anche il tentativo di riformare il sistema politico e le stesse istituzioni.

Oggi, in questo nostro Paese, ciò che gli italiani percepiscono – per esempio – in tema di emigrazione e di sicurezza è un sentimento diverso dalla situazione che i dati e le statistiche rappresentano. E su questa percezione Lega e 5 Stelle hanno costruito la loro fortuna elettorale. Quel che resta del Pd – o meglio, quel che resta della sinistra – dovrà decidere se inseguire il pensiero dominante, oppure elaborare un progetto, una visione, un’idea diversa dell’Italia, e presentare tutto agli italiani nel corso di una traversata che inizia al buio e non si sa dove, quando e come finisce.

Andare oltre il Pd, sicuramente. Non ha senso tenere in vita una formazione politica che nei suoi dieci anni di vita è stata come il Saturno dipinto dal pittore spagnolo Francisco Goyaun dio mitologico che divora i suoi figli.

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